Da quando, qualche mese fa, si è diffusa la notizia che il fondo di investimento Derwent Capital Markets intendeva usare Twitter per predire l’andamento del mercato azionario (e guadagnare un mucchio di soldi), l’attenzione per i possibili incastri fra finanza e social media si è fatta sempre più intensa. I social network sono una miniera sterminata di dati su preferenze e gusti degli utenti, come ben sanno gli esperti di marketing e anche Wall Street sta pensando a come attingervi per i suoi peculiari interessi.
Il problema è come dare in pasto questi dati ai computer che analizzano i potenziali scenari di trading, e quale e quanto valore abbiano questo tipo di informazioni nell’influenzare la quotazione di un certo titolo. Da poco meno di metà a tre quarti delle operazioni di acquisto di grossi stock di azioni viene decisa negli Stati Uniti dai cervelloni elettronici: questi ultimi sono in grado di fare guadagnare agli investitori piccole somme su ciascuna transazione, spiccioli, che moltiplicati però per centinaia di migliaia di operazioni giornaliere generano profitti di tutto rispetto.
Per ottenere questo risultato, i computer elaborano, grazie a sofisticati algoritmi di calcolo, enormi quantità di informazioni in tempi rapidissimi; occorre però i dati che di partenza siano attendibili e ben definiti, cosa che non sempre è vera per quanto riguarda i contenuti provenienti dai social network. “Le piattaforme di trading – ha spiegato a Mashable Paul Rowady, analista anziano della società di consulenza Tabb Group – possono usare i dati dei social media come indicatori, non come segnali”.
Gli indicatori presi singolarmente significano poco ma, combinandone insieme diversi, si ottengono i segnali di trading, che preludono all’investimento vero e proprio. I dati social sono troppo ambigui per fungere da segnali; come sottolinea ancora Rowady “è abbastanza facile usare i network per cogliere quali stock avranno un volume di transazioni eccezionalmente alto in un certo giorno, stabilire in maniera affidabile se ci sarà di un movimento verso l’alto o verso il basso delle quotazioni è tutta un’altra faccenda”.
Uno dei motivi di quest’incertezza è che all’interno dei social network, i contenuti positivi tendono a prevalere su quelli negativi; i “like” a eclissare i “non mi piace”. C’è inoltre un aspetto semantico da non sottovalutare: fra ironia, figure retoriche e frasi idiomatiche, distinguere se un certo post esprime un sentimento a favore o contro un dato oggetto, non è sempre facile; senza contare che network come Facebook hanno centinaia di milioni di utenti, che scrivono i decine e decine di idiomi diversi.
Tuttavia, è molto probabile che in futuro le informazioni provenienti dalle reti sociali possano far guadagnare qualche milioncino in più ai manager e ai broker; potrebbero rivelarsi particolarmente utili, per esempio, per analizzare il “mood” di mercati periferici e poco coperti dalla stampa tradizionale oppure potranno servire per far pendere da una parte o dall’altra la bilancia delle decisioni di investimento quando ci si trovi davanti a più alternative plausibili. Wall Street sembra crederci, tanto che il lancio del “Twitter fund” di Derwent è stato rimandato per soddisfare adeguatamente l’interesse degli investitori, che ha superato ogni previsione.
Il problema è come dare in pasto questi dati ai computer che analizzano i potenziali scenari di trading, e quale e quanto valore abbiano questo tipo di informazioni nell’influenzare la quotazione di un certo titolo. Da poco meno di metà a tre quarti delle operazioni di acquisto di grossi stock di azioni viene decisa negli Stati Uniti dai cervelloni elettronici: questi ultimi sono in grado di fare guadagnare agli investitori piccole somme su ciascuna transazione, spiccioli, che moltiplicati però per centinaia di migliaia di operazioni giornaliere generano profitti di tutto rispetto.
Per ottenere questo risultato, i computer elaborano, grazie a sofisticati algoritmi di calcolo, enormi quantità di informazioni in tempi rapidissimi; occorre però i dati che di partenza siano attendibili e ben definiti, cosa che non sempre è vera per quanto riguarda i contenuti provenienti dai social network. “Le piattaforme di trading – ha spiegato a Mashable Paul Rowady, analista anziano della società di consulenza Tabb Group – possono usare i dati dei social media come indicatori, non come segnali”.
Gli indicatori presi singolarmente significano poco ma, combinandone insieme diversi, si ottengono i segnali di trading, che preludono all’investimento vero e proprio. I dati social sono troppo ambigui per fungere da segnali; come sottolinea ancora Rowady “è abbastanza facile usare i network per cogliere quali stock avranno un volume di transazioni eccezionalmente alto in un certo giorno, stabilire in maniera affidabile se ci sarà di un movimento verso l’alto o verso il basso delle quotazioni è tutta un’altra faccenda”.
Uno dei motivi di quest’incertezza è che all’interno dei social network, i contenuti positivi tendono a prevalere su quelli negativi; i “like” a eclissare i “non mi piace”. C’è inoltre un aspetto semantico da non sottovalutare: fra ironia, figure retoriche e frasi idiomatiche, distinguere se un certo post esprime un sentimento a favore o contro un dato oggetto, non è sempre facile; senza contare che network come Facebook hanno centinaia di milioni di utenti, che scrivono i decine e decine di idiomi diversi.
Tuttavia, è molto probabile che in futuro le informazioni provenienti dalle reti sociali possano far guadagnare qualche milioncino in più ai manager e ai broker; potrebbero rivelarsi particolarmente utili, per esempio, per analizzare il “mood” di mercati periferici e poco coperti dalla stampa tradizionale oppure potranno servire per far pendere da una parte o dall’altra la bilancia delle decisioni di investimento quando ci si trovi davanti a più alternative plausibili. Wall Street sembra crederci, tanto che il lancio del “Twitter fund” di Derwent è stato rimandato per soddisfare adeguatamente l’interesse degli investitori, che ha superato ogni previsione.