Nel panorama del moderno retail, un approfondimento merita la formula dei negozi “a tempo”. E per una duplice ragione: prima di tutto si tratta dell’unica vera novità degli ultimi anni (anche se il temporary shop fa la sua comparsa già nel 2003) e poi perché il loro successo di pubblico è così straordinario che assistiamo quasi quotidianamente a una nuova apertura.

Perfettamente ingranato nella logica “intrattenimento, esperienza, sorpresa”, il temporary shop, o pop up store, è un negozio il cui ciclo di vita è predeterminato e molto limitato nel tempo (può essere avviato per un solo giorno, per qualche settimana o per qualche mese).

Viene aperto con l’obiettivo di giocare sulla curiosità indotta proprio dalla sua principale caratteristica: la caducità. Non di rado, infatti, in vetrina viene montato un led luminoso che indica in un countdown il tempo che manca alla chiusura del negozio, e nell’insegna è riportata a chiare lettere la dicitura “Temporary Shop”. Proprio perché non vi siano equivoci.

Lo spazio riveste un ruolo assai importante, al punto che sempre più spesso, visto il dilagare del fenomeno, assistiamo alla nascita di spazi ad hoc, negozi mutevoli e camaleontici, nati appositamente per la rotazione dei vari pop-up stores. Si tratta di spazi messi a disposizione da grossi gruppi immobiliari, ubicati in vie centralissime e pensati per poter accogliere le più disparate merceologie del retail, e proprio per questo caratterizzati da arredi fissi ridotti al minimo. Ci penserà poi l’azienda di turno a personalizzare gli spazi secondo la propria brand image, magari attraverso scenografie mobili di facile montaggio e smontaggio. Chi affitta i locali provvede ad offrire di solito anche servizi dal valore aggiunto (servizio di allarme, linee telefoniche, linee elettriche, deposito/magazzino ecc.), per ridurre al minimo le preoccupazioni dei locatari e perché si possa con agilità giocare sul fattore tempo. Ma c’è anche chi utilizza gallerie d’arte, musei, showroom, aeroporti, navi da crociera, hotel. Molto in voga tra i marchi giovani e casual la scelta di grandi scantinati in periferia.

La cronistoria del pop-up store inizia in Gran Bretagna nel 2003. Importato negli Stati Uniti, questo nuovo formato distributivo riscuote un tale successo da giustificare addirittura la realizzazione, nel 2007, del Setting Retail in Motion, una fiera interamente dedicata al retail in movimento.

In Italia, il temporary shop ha un ottimo successo di pubblico. Dopo la fase sperimentale, stiamo già vivendone la maturità. Che si tratti del lancio di un nuovo prodotto, di un’operazione di consolidamento del brand, di un’iniziativa speciale, di offerte promozionali, della sperimentazione di un nuovo servizio, di un nuovo concept o di un nuovo format, che sia solo l’espediente per creare un formato distributivo a buon mercato, senza doversi sobbarcare delle ingenti spese di avviamento di un network di negozi proprio, si può dire che il temporary shop sia entrato a far parte a pieno titolo del complesso processo di strategie di marketing aziendale.

Vediamo qualche esempio:

Creare l’evento. Questa è senz’altro la tendenza del momento, soprattutto quando l’evento è legato al lancio di nuovi prodotti. A titolo d’esempio possiamo citare il Fiat 500 Pop Up Store in Via De Tocqueville a Milano, inaugurato con una grande festa il 18 aprile scorso e pubblicizzato su tutti i mezzi di comunicazione (inclusa la stampa quotidiana).

Nel temporary store, chiuso lo scorso 31 luglio, è stato possibile conoscere l’Universo Fiat 500, in cui protagonista non è stata solo l’auto, ma anche il visitatore che si è mosso in un luogo vivo, che comunicava emozioni: uno spazio libero in cui si è potuto vivere un’originale esperienza d’acquisto. È stato luogo di merchandising e licensing, teatro di iniziative, esposizioni e mostre esclusive. Lo spazio ha ospitato ad esempio la mostra “500 Work Pop” realizzata in collaborazione con Guzzini.

Inoltre dopo tre secret show con le esibizioni di Max Gazzè, Neffa e Mario Venuti, 500 Pop Up Store ha ospitato un’altra serata speciale all’insegna della musica, con la consegna di 10 splendide Fender bianche ai fortunati vincitori del Concorso 500 Picnic Artists.

Creare situazioni per vendite esclusive in edizione limitata. Louis Vuitton ha aperto un temporary store all’interno del Brooklyn Museum di New York, in occasione della retrospettiva dedicata a Takashi Murakami chiusasi il 13 luglio scorso. Sono state messe in vendita 100 tele numerate con il “monogramouflage” creato dall’artista, proposte come vere e proprie opere d’arte. L’iniziativa ha rappresentato l’anticipazione di una nuova linea di prodotti del brand francese, presentata e venduta in anteprima proprio in questo temporary shop, solo dal 1 al 15 giugno, per essere poi lanciata nel mondo in alcuni monomarca Louis Vuitton.

– Sfruttare la leva dell’acquisto d’impulso. È il caso dei temporary shop aperti all’improvviso senza alcuna pubblicità e che contano solo sul passaparola opportunamente innescato. Secondo gli psicologi, nel consumatore si genererebbe un comportamento d’acquisto non ragionato e tendente a gratificazioni di carattere psicologico, ad esempio la caccia all’occasione. Per un’azienda è il sistema migliore per far fuori le rimanenze di magazzino, impacchettandole in promozioni e offerte speciali.

Profilare il proprio consumatore. Si rivela molto utile per le aziende che non hanno un retail network proprio e che, di conseguenza, non hanno la possibilità di conoscere da vicino il proprio consumatore-tipo. All’uopo, nel temporary shop si offre al visitatore un mix fatto di eventi, promozioni e servizi con un ritorno strepitoso in termini di marketing (prova prodotto, prenotazione e vendita).

Trasmettere esperienze emozionali legate al brand. È ciò che ha fatto Nivea nel 2007 con il temporary shop (durata: un mese) in Corso di Porta Ticinese a Milano, uno dei quartieri preferiti dai giovani per incontrarsi, divertirsi e fare shopping. Il negozio era stato diviso in tre aree: area vendita dei prodotti Nivea; area servizi di hair style, make-up e manicure per le ragazze; barber shop per i ragazzi. Nel cortile, anche questo personalizzato Nivea, ogni venerdì sera del mese si creava una sorta di evento nell’evento che prevedeva happy hour e animazione. Clamoroso il successo del 2007: 10 mila i prodotti venduti nell’arco di un mese, 60 mila i visitatori, 2500 presenze ai party del fine settimana. Nivea è uno dei pochi brand a distinguere propriamente tra temporary shop e pop up shop. Nel 2008 sono state organizzate tre tappe del Nivea Pop Up Shop, negozio e quick spa itinerante.

– Fare tendenza. Molte sono le aziende che considerano il temporary shop come una pura operazione di marketing. È il caso dei marchi che hanno imponenti flagship stores e che vogliono aggiungere un po’ di modernità e di movimento al proprio network di distribuzione.

Avviare in via sperimentale un monomarca con budget limitati. Sebbene siano alti i costi in proporzione al tempo di permanenza, restano di fatto pur sempre bassi rispetto agli investimenti richiesti dall’apertura di negozi monomarca. Costituiscono un’ottima opportunità per i test-pilota.

Vendere in particolari periodi dell’anno (fiere/settimana della moda ecc.). Supponiamo il caso di un brand internazionale delle calzature che non abbia un punto vendita in Italia e che sia presente con uno stand al Micamm. Durante il periodo della manifestazione potrebbe aprire un temporary shop per testare il mercato italiano o per sfruttare il passaggio di buyers internazionali in un contesto non-fiera, in un luogo la cui immagine possa rispecchiare i valori del marchio, oppure per creare una situazione di vendita al pubblico. A giudicare dai risultati dei vari temporary shop, gli affari sono garantiti.

Offrire un luogo fisico ideale per le aziende che operano solo online. Ottimo per avere visibilità nel mondo reale. L’idea è venuta per la prima volta all’allora direttore responsabile di Elle Décor, Marian McEvoy, che nel 2004 organizzò a New York il secondo Showhouse eBay, in pratica un pop up shop di otto stanze in cui otto interior designer furono chiamati ad arredare ciascuno una stanza. I designer, con un budget di 100.000 dollari erano stati obbligati ad acquistare pezzi di arredamento e accessori esclusivamente attraverso aste su eBay. E gli stessi materiali furono poi rivenduti su eBay qualche giorno prima della chiusura del pop up shop (15 giorni in tutto, nel giugno 2004).

Anche Amazon.com crea delle occasioni di vendita nel mondo reale: ogni anno a Natale apre un temporary shop. In questo modo, le aziende online possono mostrare ai visitatori il reale funzionamento dei loro siti, la convenienza degli acquisti on line, possono veicolare i rispettivi brand nel mondo reale e ampliare la propria visibilità.

Negozi mobili. Parleremo dei negozi mobili in maniera più approfondita nei prossimi numeri di Les Cahiers (parleremo del London Fashion Bus, dell’Ape Malandra e di altre iniziative relative ai negozi itineranti su ruote). In questa sede vogliamo citare il caso dell’americana Vacant, che gioca tutte le sue carte sul retail: dai Permanent Guerrilla Stores ai Pop Up Stores.

Questi ultimi aprono per un solo mese in grandi scantinati delle maggiori città mondiali: da New York a Tokyo, da Los Angeles a Shanghai, passando per Londra, Parigi, Berlino, Stoccolma. In pratica, il pop up apre per un mese a New York, poi chiude e si sposta a Tokyo, poi chiude e riapre a Los Angeles in una logica itinerante continua. In vendita pezzi unici, edizioni limitate dei brand giovani più noti (Adidas, Puma, Nike solo per citarne qualcuno) o emergenti. La sede dei temporary shop viene di volta in volta comunicata via email ai membri del Vacant Club con brevissimo preavviso rispetto all’apertura.

Offrire al consumatore la possibilità di vedere l’intera produzione di un’impresa. Supponiamo che un’impresa non abbia una propria rete di vendita e distribuisca attraverso  negozi multimarca. Supponiamo anche che produca un capo d’abbigliamento particolarmente popolare e di successo, ad esempio un piumino.

La tendenza del trade sarà quella di acquistare dall’impresa solo il piumino o al massimo qualche altro capo della stessa marca. Il temporary store offrirebbe a tale impresa l’opportunità di mostrare al consumatore finale, al grande pubblico, tutta la sua produzione, ovvero l’intera gamma di prodotto nella sua ampiezza, nella sua lunghezza, nella sua profondità e, infine, nella sua coerenza.

Conclusioni

Il pop up retail è indubbiamente il fenomeno del momento: numerosi sono i grandi nomi che vogliono indirizzare il proprio business verso formule commerciali innovative al fine di intercettare il cambiamento in atto nella distribuzione. È il giusto formato per destare l’attenzione del consumatore e creare curiosità attorno al brand.

Piace poi anche a un pubblico giovane, esigente ed attento alle più piccole novità, e sembra essere il mezzo ideale per i brand emergenti e cult, i brand cioè più attenti alle applicazioni di marketing non convenzionale.

È una formula poco impegnativa dal punto di vista delle risorse finanziarie necessarie per avviarlo, questione non da poco in un mercato dinamico e ormai saturo come quello della moda. Quasi giornalmente nuovi entranti si affacciano sul mercato e la competizione si gioca sempre di più sul terreno delle nuove idee e delle disponibilità economiche. Vincerà chi saprà stupire, resterà chi avrà la possibilità economica di realizzare le proprie idee in un contesto i cui costi sono solo destinati a crescere.

Il consumatore è alla continua ricerca di punti vendita che siano capaci di soddisfare il suo bisogno di novità e di esclusività. I temporary shop sono per loro natura certamente in grado di far leva su fattori come sorpresa, esperienza, emozione, intrattenimento, che come abbiamo visto nell’articolo Retail prossimo venturo, sono i valori attorno ai quali ruota tutta la logica retail delle imprese più avanzate.

Concentrarsi sulla distribuzione vuol dire analizzare un consumatore in continua evoluzione, essere in grado di capirlo e di soddisfarlo. Seguire il passo dei tempi ci permette di capire che nulla più è statico. Non lo sono i modelli di marketing, non lo sono le teorie, non lo sono i comportamenti dei consumatori e, a quanto pare, non lo sono più nemmeno i negozi.