Dopo un lancio entusiasmante in Rete e l’adesione di milioni di utenti nelle prime settimane, l’applicazione Secret è al tramonto della sua peraltro breve parabola esistenziale: creata e sviluppata poco più di un anno fa da David Byttow e Chrys Bader, l’app cosiddetta ‘confessionale’ che permetteva di scambiare post nella tranquillità dell’anonimato, è apparsa subito molto amata dal pubblico, ed i primi investimenti non tardarono ad arrivare, tanto che anche Zuckerberg vi posò il suo occhio clinico e dorato.
Quindici milioni di utenti non sono pochi, tutti interessati ed affascinati dalla possibilità di scrivere in libertà, senza il ‘problema’ di quell’accessorio a volte scomodo ed inibitorio che è il proprio nome; l’interesse è tuttavia rapidamente scemato, forse per motivi di mancanza di appeal nel lungo periodo, o di restyling dell’app non proprio accattivanti, o di episodi di prevaricazione in Rete favoriti, ahimè, proprio dall’anonimato; o forse c’è un altro perché: in Rete ci si può nascondere, ma non ci si vuole nascondere, tanto meno dentro ad un confessionale, la Rete non vuole griglie che nascondano il volto di chi parla. Gli sviluppatori di Secret hanno fondato la loro operazione sul concetto di comunicazione ‘aperta’, che significa sincera, onesta, innescata senza timori di critiche o ritorsioni e per loro possibile solo grazie all’anonimato, ma anche senza i riferimenti che tradizionalmente denotano i poli della comunicazione, senza i quali, in realtà, sociologicamente non esiste.
Viviamo in Rete, amiamo esporre tutto di noi, e la nostra era non perdona i timidi; ciò nonostante, alcune applicazioni, tra cui Secret, hanno promesso libertà di espressione attraverso l’anonimato e l’affrancamento, in questo modo, dagli stereotipi della vita social a cui molti sottostanno, e dal narcisismo digitale; tuttavia, in un mondo virtuale ed iperbolico, nessuno vuole nascondersi, e quindi riprodurre in molti casi le dinamiche, a volte frustranti, della vita reale. Meglio noti.